martedì 29 novembre 2011

Dagli appunti al testo

Dal post “L’idea di fondo”:

“Così decisi di osservare e ricordare quanto più possibile per poi trasmetterlo ad altri.”

Avevo con me un piccolo quaderno dove alla sera, dopo giorni intensi, cominciai ad appuntare pensieri e cose che avrei dovuto ricordare.
Tornato in Italia gli appunti sono diventati la traccia su cui riversare i ricordi. Lo feci subito, quando tutto era ancora vivido: spostamenti, dialoghi, sensazioni, colori, profumi.
Poi iniziai a rivedere le foto e i video girati e compresi che c’erano altri dettagli che mi balzavano in testa, come ricordi nascosti nella memoria. Così iniziò una leeeenta integrazione, c’era sempre qualcosa da aggiungere!
Finché mi stancai e lasciai tutto a dormire nell’hard disk del computer.
Intanto parlavo di quel viaggio con amici e parenti.
Ritrovai l’entusiasmo dopo qualche tempo e, finalmente, finii.


La mole di parole assomigliava quasi ad un libro ma, caspita, era scritto in un italiano scandaloso!
Iniziai a correggere gli errori più evidenti, pagina per pagina.
Nonostante le correzioni ogni volta che un foglio mi capitava sottomano trovavo qualcosa che non andava… Yovò era una stampa piena di correzioni a matita!
“Basta”, dissi, e lo chiusi in un cassetto.
Spesso il pensiero tornava lì. Avevo fatto il più e l’avevo abbandonato, solo e inutile.
Poco più di un anno fa lo guardai e pensai che dentro c’era un’esperienza che valeva la pena di essere raccontata.
Solo il fatto che qualcuno lo potesse leggere avrebbe avuto un valore, il valore di raccontare una realtà che sembra tanto distante, ma che si trova solo ad otto ore di aereo dall’Italia. Il valore di raccontare, senza retorica, che c’è veramente qualcosa da fare per rendere il mondo migliore e che c’è veramente qualcuno che fa qualcosa.
Inoltre, se qualcuno l’avesse acquistato, ci sarebbero stati i diritti d’autore, e con quelli, forse, Yovò potrebbe essere una fonte di sostegno per piccole, importanti iniziative.
Così immaginai che Yovò, nonostante le sue piccole imperfezioni, potesse diventare un libro.

lunedì 28 novembre 2011

Perché le Apostole della Consolata

Ad Azovè c'è la missione (cattolica) delle Sorelle Apostole della Consolata. Lì sono stato ospitato e con loro ho girato per il paese, seguendole nei loro impegni e beneficiando della loro conoscenza del territorio. Appoggiarsi a loro era uno dei pochi modi per potersi muovere in Benin e sicuramente mi ha permesso di visitare alcuni luoghi inarrivabili per qualsiasi straniero.
Vivendo vicino a loro ho potuto vedere cosa si faceva all'interno della missione. Toccare con mano è stato il miglior modo per convincermi che ciò che facevano aveva un valore umano impagabile e, soprattutto, che veniva fatto al meglio, seppur con risorse limitate.
Personalmente mi sento un uomo libero, non ho pregiudizi religiosi o sociali, cerco di conoscere prima di parlare e di vedere prima di decidere. Nello specifico non credo di essere un buon cattolico, o almeno non lo sono nei confronti della Chiesa: la mia partecipazione alla vita parrocchiale è praticamente nulla e vado a messa a Natale e a Pasqua, più per tradizione che per convinzione.
Semplicemente, le sorelle missionarie mi hanno offerto una possibilità ed io l'ho colta.
E dopo aver visto sono rimasto colpito. Lì c'è l'essenza del fare qualcosa per amore, senza aspettarsi niente in cambio. 
Potrebbero essere musulmane, buddiste, induiste, potrebbe essere un gruppo di amici o una squadra di rugby, per quel che mi riguarda, potrebbe essere un'organizzazione sociale o governativa, non è importante. Sono importanti le intenzioni, i metodi, i risultati.
Ci sono associazioni, anche molto più grandi, che meritano di essere sostenute, ma io ho visto questo, e mi è piaciuto.
La carità non è qualcosa che arriva dal cielo. In quel posto carità è offrire la possibilità di un futuro, insegnando a scrivere e a lavorare, offrendo il conforto a chi ne è privo, offrendo anche la più elementare assistenza medica e, perché no, offrendo quel piccolo aiuto indispensabile a chi si trova incastrato nel “cul de sac” della povertà. Tutto questo senza confliggere o sostituire le istituzioni locali, anzi spesso valorizzandole, nel rispetto delle consuetudini e dei normali meccanismi economici e sociali.
Ho visto che ogni centesimo di euro arriva a destinazione ed è impiegato al meglio. Ho visto che anche oggetti per noi non più utili o desinati ad essere sostituiti lì diventano una risorsa.
Ho ho visto che lì c'è qualcosa di buono, di importante. Ho visto che è fatto bene.

domenica 27 novembre 2011

L’idea di fondo

Era l’anno 2000 (ecco perché a questo blog è stato assegnato l’indirizzo yovo2000).
Da qualche giorno stavo in Benin, ospitato in una missione ad Azovè. Dallo sbarco all’aeroporto non avevo incontrato alcun uomo bianco ed allontanandomi dalla costa verso l’interno ho temuto di essere finito in un film, o in un documentario girato da un temerario videomaker. Ora iniziavo a percepire la realtà condividendo il tempo con donne che agli abitanti di questo paese avevano deciso di dedicare la loro vita. Ammiravo ciò che facevano e avrei voluto anch’io fare qualcosa. Ma non ero un medico, non ero un fabbro, non ero un insegnante e non mi sarei fermato il tempo sufficiente per realizzare un qualsiasi progetto.
Avevo la sensazione che ci fosse tanto da fare, ma io… cosa potevo fare?
Cosa stavo facendo? Osservavo. Poteva servire a qualcosa? Forse si.
Perché non avevo mai sentito parlare del Benin? Perché non avevo mai saputo chi erano i beninesi? Perché non avevo mai saputo che c’erano persone che in un giorno riuscivano a realizzare più di quanto io avrei potuto fare in molti giorni?
Perché nessuno me ne aveva mai parlato.
Ecco, questo potevo fare, parlarne. Osservare e parlarne. Assistevo a qualcosa di straordinario e, pensai, riportandolo ad altre persone avrei potuto sensibilizzarne il sostegno, incuriosire o almeno lasciare una traccia di tutto ciò.
Così decisi di osservare e ricordare quanto più possibile per poi trasmetterlo ad altri.

sabato 26 novembre 2011

Benvenuto

Buongiorno a tutti.
Caro navigatore benvenuto!
Che tu sia giunto per caso o per scelta in questa pagina, ho il piacere di presentarti un nuovo piccolo tassello del progetto Yovò.
Qui ti racconterò come è nata un’idea e come, piano piano, la sto concretizzando. 

Il termine Yovò nella lingua locale di alcuni luoghi dell’Africa centrale, in particolare in Benin e in Togo,  significa “uomo bianco”.
Yovò ero io, qualche anno fa e per qualche giorno.
Yovò è il suono principale di una cantilena che i bambini recitavano vicino a me, e che mi è rimasta incagliata nell’orecchio, nonostante il passare del tempo.
Yovò è diventato il desiderio di fare qualcosa di buono, qualcosa di bello. E di farlo bene.
Yovò è stato riversato in un testo. Ad oggi non lo è ancora, ma presto potrebbe diventare un libro.
Yovò è il desiderio di raccontare la mia esperienza, affinché altri possano conoscere. Potrebbe venirti voglia di ripercorrere i miei passi, e magari fare più di ciò che io ho fatto.
Yovò, intanto, è questo blog.
Buona lettura!